La Partita, 22/04/2022; Nell’ambito del nostro ruolo di indagatori dell’incubo chiamato lavoro salariato, abbiamo deciso di contribuire al diradamento di alcune nebbie create ad arte per nascondere la reale natura di ciò che per scopi strumentali viene definita la “FORTUNA DI AVERE UN LAVORO”.
Un compito arduo da assolvere, a cui tendiamo solamente a dare il nostro contributo iniziando con una riflessione che può intendersi come incipit del lavoro che vorremmo sviluppare.
La riflessione punta a raccogliere uno dei bandoli della matassa che potremmo definire l’ideologia del Lavoro, per definire meglio la sua natura profonda di sfruttamento.
Partiamo quindi da un dato che da più fonti sta emergendo (INPS, ISTAT, Studi Legali, Medici Competenti, ecc.) per costruire insieme un dibattito collettivo sull’argomento e speriamo anche stimolare qualche argomentazione ulteriore.
Il dato da cui vorremmo partire è la crescita definita “significativa” delle denunce di malattie professionali. Per chi è più a digiuno dell’argomento, si intende malattia professionale quella patologia permanente o temporanea che sia scaturita direttamente, che abbia quindi una correlazione certa e riconosciuta (vedremo in seguito come) tra la sua insorgenza e l’attività lavorativa svolta.
Da cosa dipende questo aumento delle denunce è l’aspetto che vorremmo indagare. Perché se è impossibile ignorare la devastazione che si va determinando in termini di infortuni o morti sul lavoro, il tema delle conseguenze di salute che il lavoro lascia anche a chi riesce a sopravvivergli è ancora scarsamente considerato, ci permettiamo di dire soprattutto per un deficit di consapevolezza da parte delle lavoratrici e dei lavoratori stessi.
Dunque, per tornare alle cause di questo significativo incremento c’è certamente da tenere in considerazione la sistematizzazione normativa organizzata nel T.U. 81\08, che ha il compito di raccogliere in un unico quadro normativo gli oneri e i diritti in relazione alla salute e alla prevenzione nei luoghi di lavoro e che ha un unico reale importante contenuto: imporre ai datori di lavoro di rendere edotti e consapevoli i propri dipendenti dei loro diritti, delle loro agibilità, del loro ambito di rischio e delle norme e procedure a cui attenersi o alle quali opporsi se ritenute insufficienti.
Nello stesso anno vengono aggiornate e ampliate le tabelle assicurative dell’INAIL relative alle malattie professionali (DM 9 aprile 2008), che introducono l’impatto che negli anni sta emergendo in termini statistici di alcune patologie in particolare : Patologie Osteoarticolari e Patologie Neoplastiche.
Per riassumere, quindi, una maggiore consapevolezza e un quadro normativo che riconosce come possibili correlazioni nuove e più diffuse patologie sono certamente gli elementi che negli ultimi anni stanno facendo crescere esponenzialmente le denunce. Anche perché negli anni precedenti erano talmente ristrette le malattie cosiddette “tabellate”, che di fatto si scoraggiavano i percorsi di denuncia e riconoscimento.
Tenuto conto che queste denunce hanno necessità di una conferma del riconoscimento dall’ente terzo o da un giudice, in una percentuale che si attesta intorno al 40% di media, ci preme evidenziare che questo ne determina un risarcimento in capitale per i casi di temporaneità della patologia o in indennità pensionistica. Prima conclusione: dopo tanti anni continuiamo a non comprendere perché per un danno causato ad un cittadino da un soggetto privato a scopo di lucro venga poi in soccorso lo stato a sostenere il reddito del cittadino stesso. Non dovrebbe essere il soggetto privato ad esserne obbligato?
Per essere concreti questo dilemma assorbe 4,1 miliardi a fronte di 700mila rendite relativamente a infortuni sul lavoro e malattie professionali! (report ISTAT 17\02\21).
Da notare inoltre che a causa delle strettoie normative che impediscono di fatto un fenomeno diffuso nel ricorrere alle autorità competenti per il riconoscimento di tali patologie correlate all’attività lavorativa potremmo trovarci di fronte ad uno tsunami sociale ed economico più vasto di quello che ci viene rappresentato, che forse già esiste ma che teniamo politicamente e socialmente nascosto sotto il tappeto.
Perché se le denunce per malattie professionali hanno avuto un significativo incremento attestandosi intorno alle 60mila annue, affiancate da circa 1milione di infortuni sul lavoro, e la quota mille ormai nuovamente sfondata di morti sul lavoro, abbiamo un altro dato che dovrebbe attirare l’attenzione delle istituzioni sanitarie e governative più in generale: i decessi in età inferiore ai 65 anni, che è considerata quindi età lavorativa ai sensi della legge pensionistica.
Prendendo di questa Tabella solamente i dati relativi ai decessi causa malattie circolatorie, ischemiche, del sistema nervoso e tumori, che potremmo quindi considerare a tutto tondo sintomi dell’usura del corpo umano, anticipatamente rispetto all’aspettativa di vita attestatasi intorno agli 80 anni di media per l’UE, relativamente all’Italia ma comunque in media con il quadro europeo abbiamo più di 1 decesso ogni 1000 abitanti per queste cause. Cause che, se non tutte riconducibili direttamente all’attività lavorativa svolta, certamente contribuiscono in una buona quota, in maniera variabile, ovviamente, relativamente alle condizioni di stress e ambientali del luogo in cui si passa un terzo o più della propria vita.
Non crediamo neppure che sia un caso che oltre i due terzi di malattie professionali e infortuni riconosciuti provengano dal settore dell’industria, meno del 10% dall’agricoltura (dunque lo sforzo fisico e l’attività manuale hanno ancora un peso importante) il restante dagli altri settori.
Un dato certamente minore ma comunque rilevante è l’aumento preoccupante di ipoacusie riconosciute come malattia professionale, perché se c’è certamente una correlazione con le tecnologie diffuse nella nostra vita per attività extra lavorative, è altrettanto chiaro, tanto da farne determinare un riconoscimento quale patologia legata al lavoro, quanto queste tecnologie impattino sia in termini di organizzazione del lavoro in qualsiasi settore (pensiamo all’utilizzo di smartphone e video call oltre a quanto deriva dal mancato utilizzo di DPI per attività edili o industriali), ma anche alla diffusione di miriadi di call center a scopo di caring per l’utenza, marketing, vendita ecc., che oggi coinvolgono qualche centinaia di migliaia di addetti.
Per concludere questa prima pillola di presentazione del lavoro che vorremmo svolgere, se questa epoca pandemica ha messo in risalto le diseguaglianze tra chi ha un lavoro salariato strutturale e chi invece ne ha o aveva uno precario, non ha potuto risolvere il nodo principale del sistema di produzione capitalistico, in cui il profitto viene prima di tutto per antonomasia e la salute di chi lo produce è solo un orpello di cui si deve far carico la collettività.
Non nascondiamo che ci piacerebbe pensare ad una società più simile ad un’esperienza raccontataci qualche anno fa dagli operai di una fabbrica occupata in Argentina, dove uno dei primi risultati ottenuti da una produzione orientata solo al sostentamento dei salari degli operai e addetti, senza necessità di profitto per altri, aveva prodotto ZERO INFORTUNI in un luogo per essi tristemente famoso nel periodo della direzione del proprietario precedente all’occupazione.
Il Lavoro salariato è sfruttamento e prima o poi ne paghiamo anche le conseguenze in termini di salute.