Rifacciamo la convergenza alle lotte, per un vaccino sociale contro crisi e pandemia
La Partita, 02/01/2022 ; Non è andato tutto bene. Sono trascorsi poco meno di due anni dall’inizio dell’emergenza sanitaria globale ed in Italia il “ritorno alla normalità” sembra essere dello stesso segno di prima, anzi peggiore.
Nonostante l’effetto mitigante dei vaccini, siamo nuovamente a 100.000 positivi, 1200 persone in terapia intensiva e 150 morti al giorno. Il vaccino è stato importante ma, in maniera criminale, il “governo dei migliori” ha puntato tutto sul suo effetto di contenimento dei sintomi più gravi, ha scaricato sui singoli cittadini la responsabilità della cura collettiva (anche col green-pass e col super green-pass) e si prepara ora alle riaperture in nome del “rilancio del PIL” addirittura pensando alla cancellazione delle quarantene, senza aver fatto nulla per il tracciamento, tamponi diffusi gratuitamente (e non solo per andare a lavorare) e un forte reinvestimento su sanità, trasporti e scuola pubbliche. In questo aspetto paradossalmente creando un terreno di convergenza di intenti tra richieste dei No Vax e di Confindustria.
Come afferma da tempo la campagna “Nessun Profitto sulla pandemia”, l’urgenza oggi è determinata dal fatto che “se intere zone del pianeta fossero rimaste senza vaccini avrebbero potuto svilupparsi delle varianti virali maggiormente aggressive che si sarebbero poi diffuse in tutto il mondo”.
La crisi economica e quella pandemica vanno di pari passo e ormai si alimentano a vicenda.
D’altra parte, nella prima ondata la propaganda dei tricolori sui balconi nel 2020 aveva solo mascherato un sistema che era entrato nella pandemia già in una crisi che la diffusione del virus ha subito amplificato. La retorica del “restate a casa” ha cozzato subito, da una parte, con i rischi di contagio per milioni di persone costrette ad andare lo stesso a lavoro in fabbriche, ospedali, GDO, logistica, delivery oppure ammassate in carceri, hostspot e CPR sovraffollati e dimenticati da ogni istituzione. Dall’altra ce n’erano altrettante che una casa sicura dove restare non l’avevano o perché povere, senza-tetto o occupanti, o migranti costretti alla semi-clandestinità oppure tantissime donne che a casa propria non possono essere al sicuro perché vittime di sopraffazioni e violenze domestiche. Il lockdown che ha interrotto repentinamente le filiere globali e le chiusure di attività non hanno fatto altro che amplificare le vecchie e nuove povertà, con centinaia di migliaia di persone costrette all’invisibilità del lavoro di cura, nei mille lavori precari o anche nel lavoro povero che comprende ormai milioni di persone anche con un lavoro a tempo indeterminato. Soggetti che spesso per le proprie condizioni di lavoro nero o grigio non hanno avuto nemmeno accesso ai bonus spezzettati e temporanei del governo.
La povertà già crescente si è impennata con il dilagare di nuove forme di esclusione sociale. Tra queste in tutti i rapporti (ISTAT e Caritas) risulta che i soggetti più colpiti sono i giovani under 34 e le donne, che ormai nelle fasce di povertà cittadini stranieri e italiani si equivalgono quasi e che cresce molto la povertà “cronicizzata” di chi ci finisce e non ne esce facilmente.
Inoltre, con una sanità definanziata, spostata sul privato, ridotta in posti letto, terapie intensive e personale da anni di spending review era prevedibile che un’emergenza così grave come quella del “coronavirus” avesse un impatto devastante. Il vero e proprio massacro nelle RSA ne é un indice inequivocabile.
Secondo i dati dell’annuario statistico del SSN nel confronto con il 2010 sono evidenti i risultati di anni di definanziamento della sanità (37 miliardi di euro dal 2010 al 2019) imposto dai vari governi che si sono succeduti. In dieci anni sono stati chiusi 173 ospedali e 837 strutture di assistenza specialistica ambulatoriale. Inoltre, ci sono 276 strutture di assistenza territoriale pubbliche in meno (ma 2.459 private in più) e il personale dipendente del SSN è diminuito di 42.380 unità. Di questi, 5.132 sono medici e odontoiatri e 7.374 infermieri. Per l’Eurostat, l’Italia è tra gli ultimi sette Paesi dell’Unione europea per numero di posti letto.
Questo quadro è stato peggiorato dalle spinte “aperturiste” di Confindustria, Confcommercio e di alcune regioni come quella lombarda (proprio quella propugnatrice del modello privatistico sanitario) e dalle pressioni delle imprese sul governo Conte bis che hanno ottenuto due terzi dei soldi stanziate dal Decreto Sostegni togliendo risorse al sostegno diretto monetario al reddito di chi è in difficoltà.
Forme di resistenza ce ne sono state e si sono affacciate convergenze per contendere la redistribuzione della ricchezza verso il basso.
Nell’analisi della crisi pandemica e nella ripresa delle lotte nel capitalismo attuale sono venuti alla luce molti terreni di scontro conflittuali: il tema della necessità di un reddito incondizionato per tutt@, di un salario minimo inderogabile, di una patrimoniale verso le ricchezze concentrate, dell’urgenza di una sindacalizzazione per le nuove forme di lavoro digitale, smart working e DAD, di un ripensamento di welfare, scuola, cultura… Ma soprattutto è emerso con forza il ruolo del cosiddetto lavoro di cura e riproduttivo sottopagato, sottovalutato e/o non pagato, prevalentemente femminile e razzializzato. E di contro il contrasto tra l’importanza e necessità assoluta di questo lavoro per tenere in piedi una società che mette al centro solo il profitto a scapito di vita, benessere e salute delle persone.
Questo scontro latente ha svelato come welfare, lavoro di cura e riproduzione sociale siano oggi un terreno di lotta unificante in cui la cura collettiva si contrappone al primato del profitto.
La realtà è che oggi, dal punto di vista sanitario, nel nostro paese contiamo più di 130.000 morti di cui 100.000 dopo la prima ondata (quella della quarantena totale) e ancora in questi giorni, che gli effetti del vaccino si fanno sentire nel contrastare il contagio e gli effetti più letali del virus, parliamo comunque di più di 40 morti al giorno.
Il vaccino si sta dimostrando uno strumento fondamentale nell’ostacolare la pandemia e avviare un percorso di uscita. E fuori da ogni equivoco è normale che ci dovranno essere diversi richiami a meno di non pensare a una “pozione magica”. Ma se oggi il futuro è ancora incerto, questo è perché i governi occidentali hanno la responsabilità di non averne liberalizzato i brevetti lasciando le popolazioni ostaggio delle guerre commerciali tra multinazionali e Stati e interi continenti scoperti. I governi italiani Conte bis e Draghi poi hanno alimentato una gestione mediatica della crisi, improntata al terrorismo psicologico e al paternalismo, scaricando sui singoli le responsabilità di non aver dato risposte alle esigenze di prevenzione che da tutti i campi sanitari veniva invocata: il tracciamento quando il numero dei contagi lo consentiva.
E’ quindi sicuramente una battaglia giusta quella per i tamponi gratuiti per tutt* (ma molecolari e non gli inutili antigenici). Ed è questa stessa gestione della crisi pandemica ad aver alimentato le piazze di questi mesi che spesso, dietro le critiche alle aberrazioni giuridiche del green-pass sui luoghi di lavoro nascondono posizioni irrazionali No Vax rendendo questo terreno impraticabile per una critica seria alla gestione capitalistica della pandemia. Una strettoia in cui si rischia di restare schiacciati e di creare un largo terreno di consenso proprio per il governo Draghi, che invece porta gravi responsabilità, in milioni di persone che giustamente vedono nel vaccino l’unico elemento di mitigazione degli effetti più devastanti del virus.
E soprattutto diventa un terreno inservibile far emergere la rivendicazione di un’uscita da questa crisi in direzione contraria a quella attuale sui problemi che resteranno sicuramente più a lungo del tema green-pass in maniera amplificata rispetto ai decenni precedenti: licenziamenti e delocalizzazioni, lavoro povero, nero e precario con una mancanza di reddito e di un salario minimo per tutti, lavoro di cura e welfare sostenuti pubblicamente e socialmente. Insomma, il tema di una forte redistribuzione verso il basso come “vaccino sociale” da affiancare a quello sanitario.
Infatti, l’andamento dei salari, sulla base dei dati comunicati dall’Ocse, vede fra il 1990 e il 2020 un calo medio annuale pari al 2,9%.
L’aumento nel 2021 degli infortuni sui luoghi di lavoro e l’ancora altissimo numero di morti (772 al 31 agosto scorso, secondo l’Inail) ci dà già la dimensione di cosa significa accettare un lavoro qualsiasi a qualsiasi condizione, senza diritti né tutele.
Le centinaia di vertenze irrisolte (Alitalia, Embraco, Whirlpool, ex Ilva, ecc.) e le delocalizzazioni selvagge (Gkn, esemplificano) ci dicono che nessun lavoratore e nessuna lavoratrice è al sicuro.
Gli ultimi dati dell’Istat ci parlano quest’anno di 5,6 milioni di poveri (2 milioni di nuclei familiari), cifra record in Italia, con un contestuale ampliamento dei già grandi differenziali sociali sui soggetti più colpiti (donne, giovani e migranti).
Nell’ultimo decennio, dati Eurostat, la spesa sanitaria pubblica totale è aumentata solo del 5,3 percento in Italia, mentre in Germania è aumentata del 46,8 percento, mentre nello stesso arco di tempo l’Italia ha ridotto la spesa pubblica destinata al sistema ospedaliero per un valore del 4 percento in termini nominali.
Aumenta la dispersione scolastica, salita in due anni dal 7% al 9,5%, con punte del 20,1% in Campania e addirittura del 22,4% in Calabria. Sono quasi 14mila le classi gremite da 27 fino a 40 alunni, per un totale di 400mila studenti e studentesse coinvolti/e.
Stessa situazione di affollamento che si vive quotidianamente sui mezzi di trasporto pubblico: stando ai dati della Banca d’Italia, il servizio, per quantità e qualità, è significativamente inferiore agli altri Paesi dell’Ue. L’offerta di autobus rappresenta meno di un quinto dei posti per chilometro quadrato a Milano, oltre il 40 per cento a Napoli e Roma, poco più del 60 per cento a Torino e percentuali più elevate nelle altre aree metropolitane.
Insomma, nelle dichiarazioni un po’ di tutti i governi e di tutti i partiti politici, la crisi pandemica avrebbe dovuto rimettere al centro i temi nodali del “vivere bene” e il “lavoro di cura” in una società che si vorrebbe “avanzata” e invece ci ritroviamo come e peggio di prima: ecco il “ritorno alla normalità”!
Vogliamo parlare del PNRR?
Nessuna risorsa andrà alla redistribuzione di reddito verso il baso o a nuovo welfare con la nuova Legge di Bilancio. I fondi saranno destinati a una rimodulazione dell’IRPEF a vantaggio di chi ha già redditi medio-alti, ritorno al sistema Fornero sulle pensioni, fondi a svantaggio del Sud del paese e alleggerimento dei controlli e vincoli sugli appalti. Non si parla quasi più del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con 191 miliardi di euro dall’UE, attraverso il quale prima il governo Conte II e poi il governo Draghi annunciavano una nuova età dell’oro per tutti: imprese, famiglie, lavoratori e lavoratrici. Due questioni dovrebbero essere al centro del dibattito politico su questo che secondo noi è il tema centrale: 1) Cosa comporta questo prestito? 2) A chi e dove andranno questi soldi?
Quello che quasi sempre si omette è il fatto che sul totale dei fondi stanziati per l’Italia, solo 68,9 miliardi sono a fondo perduto, mentre i restanti 122,6 miliardi sono costituiti da prestiti. Questi prestiti andranno ad aumentare il rapporto Debito Pubblico/PIL, con la conseguenza che, quando rientrerà operativo il patto di stabilità (2023) per usare quei soldi bisognerà ridurre drasticamente il rapporto debito/PIL.
Ciò significherà operare una serie di “riforme” per rientrare del deficit, di cui si sta già parlando sugli organi di stampa dei gruppi economici, dal taglio delle pensioni, a maggiori tassazioni sulle case, dalle privatizzazioni di quel poco di welfare state che è rimasto, a misure che renderanno ancora più flessibile e povero il lavoro dipendente. Senza dimenticare che sarà il Pnrr a decidere quali saranno le aziende da salvare e quelle da abbandonare a loro stesse. Caso emblematico è quello della tanto sbandierata del ministero per la “transizione ecologica”, un bluff colorato di verde, quando poi si vede che gli investimenti dichiarati saranno ancora sulle cosiddette grandi opere (dal Tav ad addirittura il Ponte sullo Stretto di Messina) e a favore delle industrie estrattivistiche di Stato, come l’Eni. Una mega-operazione di green-washing con finanziamento delle imprese digitalizzate, industria e nuovi servizi 4.0 senza nessun cambio del modello produttivo che genera il devastante impatto ambientale attuale.
Il tutto espropriando questi orientamenti a ogni dibattito politico pubblico, dirigendoli con un criterio accentratore e autoritario, senza alcuna possibilità di confronto con i movimenti, con i settori popolari e nemmeno con chi (più o meno coerentemente) li dovrebbe rappresentare.
Un lungo ciclo reazionario: quale risposta?
Con una presa di parola che irrompa nel dibattito pubblico, dentro una convergenza di mobilitazione e vertenze che aggrediscano il tema della redistribuzione e dell’indirizzo delle risorse del PNRR (avere voce in capitolo su indirizzi e quantità degli investimenti, cioè una redistribuzione della ricchezza che potenzi i servizi sociali e i redditi bassi o nulli) può aver senso una battaglia contro il green-pass o il super green-pass nei luoghi di lavoro, una misura che va a colpire il salario e il lavoro di diversi milioni di dipendenti, senza aver fatto nulla su Sanità, Scuola e Trasporti e nemmeno su salario minimo e delocalizzazioni in quasi due anni. Anzi quelle poche misure che esistono, come il reddito di cittadinanza, sono ancora parziali e si discute addirittura se cancellarle o definanziarle invece di estenderle universalmente in maniera incondizionata.
Ci troviamo di fronte a un lungo ciclo reazionario, inaugurato già ben prima della diffusione del Covid-19, caratterizzato dalla frammentazione sociale e dal continuo drenaggio di risorse dai segmenti sociali subalterni verso le imprese e che, in mancanza di risposte positive, alimenta una continua tensione tra poveri, in una sorta di guerra degli ultimi contro i penultimi. Di questo approfittano il governo ed il fronte confindustriale che hanno espropriato il dibattito politico della discussione su queste questioni.
Peraltro, gli assalti alle sedi sindacali, i pestaggi e i morti durante gli scioperi e i presidi di lavoratrici e lavoratori in sciopero, narrano una ripresa delle violenze squadriste antioperaie, fasciste e non solo. Di fronte a questo quadro fosco, servirebbe una nuova capacità collettiva di pensiero e di azione, solidale e unitaria pur se plurale nelle sue composizioni. La messa al centro del tema della redistribuzione nella crisi pandemica ne svela l’essenzialità nella contrapposizione tra vita e profitto, benessere collettivo e capitalismo. Durante la quarantena condividevamo nelle convergenze delle lotte l’idea che “senza una rottura costituente, l’aria non cambia”.
E’ ormai tempo di discutere tutt* insieme per capire quali spazi esistono, quali si apriranno, quali sono chiusi e vanno aperti a spallate e con quali rapporti di forza e di unità li agiamo.